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Banche e politica in equilibrio precario

di Orazio Carabini

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10 novembre 2009

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Il ruolo del ministro
Tremonti, al contrario, ha trascorso all'attacco i mesi più duri della crisi: i suoi bersagli preferiti sono stati i banchieri e il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi. Ne ha guadagnato popolarità (all'opinione pubblica i banchieri non stanno simpatici) e qualche risultato concreto (le banche hanno fatto concessioni importanti). «Ma alla fine ha esagerato - osserva un banchiere - con la storia dei Tremonti bond. Avrebbe potuto dire: "Vi ho dato il paracadute e per fortuna non è servito. Siamo stati tutti bravi". Invece no. Ha insistito a dire: "Dovevate aprirlo"». Tanto che alla fine i banchieri sono andati da Berlusconi e da Letta a protestare, ottenendo una sorta di armistizio (si veda Il Sole 24 Ore del 24 novembre). Draghi a sua volta si è creato un canale di comunicazione privilegiato con Palazzo Chigi, tanto da diventare il più accreditato successore di Tremonti nel momento in cui il ministro dell'Economia è stato messo sotto tiro da alcuni settori della maggioranza per la sua intransigenza sulla Legge finanziaria.

«Il governo - osserva un ex-banchiere centrale - non ha una storia analiticamente fondata da raccontare. L'ottimismo di Berlusconi può anche andar bene, serve a iniettare fiducia nel sistema. Ma sono i ministri economici a non avere un'idea e la loro retorica è negativa».
«Noi abbiamo fatto e faremo molto per il cambiamento - replica il ministro del Welfare Maurizio Sacconi - anche se al momento prevale il primum vivere, cioè evitare che le imprese muoiano. Questo non significa che il governo rinuncia ad avere una visione di lungo periodo. E infatti stiamo lavorando sul capitale organizzativo, su quello umano e su quello fisso del sistema. Ma in tutto ciò non c'è spazio per il colpo di teatro: lo svuotamento di un pezzo di welfare per abbattere la pressione fiscale. La recente riforma della previdenza ha messo in equilibrio i conti delle pensioni. E un innalzamento dell'età pensionabile produrrebbe effetti graduali, insufficienti a compensare l'abbassamento della pressione fiscale». C'è chi vede in questa posizione la rinuncia a ridurre le imposte e a migliorare la qualità della spesa. Ma Sacconi non ci sta: «Non possiamo inseguire i desideri dei salotti della sinistra. La coesione sociale è un valore cui non possiamo permetterci di rinunciare in una fase come questa».

Un politico di lungo corso torna sulla necessità di "fare sistema": «In fasi delicate come quella attuale servirebbe un "idem sentire" tra potere politico e potere economico. I partiti devono resistere alla tentazione di tenere sotto controllo l'establishment usando il populismo per creare un conflitto tra il mondo dell'economia e la gente. La forza della politica è dare idee all'economia, non viceversa. Gli americani, per esempio, prima discutono, magari interferiscono con il lobbying, poi arrivano a una sintesi e vanno avanti tutti insieme: "We americans", dicono». «Siamo gli unici - aggiunge un importante manager del settore privato - a uscire dalla crisi senza aver fatto nulla: né le riforme né il sostegno pubblico. L'unico progresso è che gli altri si sono avvicinati a noi aumentando deficit e debito pubblico».

«Sulla politica di bilancio è difficile dar torto a Tremonti - commenta però un autorevole banchiere -. Poteva fare una scommessa politica aumentando il deficit, e il debito. Ma poi bisogna rientrare. E in Italia quando si allentano le briglie, poi si fa fatica a stringerle».

Deficit e rigore
«Tremonti è consapevole del problema - aggiunge il vicesegretario del Pd Enrico Letta - ma non bisogna dimenticare che 12 mesi di crisi hanno riportato il bilancio pubblico al livello del 1994: il lavoro di otto ministri dell'Economia e le fatiche di 15 leggi finanziarie sono stati spazzati via. Con una differenza non trascurabile: finora le privatizzazioni e il calo dei tassi d'interesse ci hanno aiutato a contenere il deficit e il debito mentre in futuro contribuiranno in misura marginale».
Letta ne trae una conclusione: «In questa situazione è un guaio se tutti sono nemici, perché la politica è fisco e spesa pubblica. E adesso non ci sono leve da azionare. Bisogna usare virtuosamente le banche per finanziare lo sviluppo, le fondazioni, la Cassa depositi e prestiti. E le authority per liberarsi dei lacci e lacciuoli che continuano a frenare il sistema. Ecco, bisogna recuperare una dimensione cooperativa: il potere politico indica gli obiettivi e fa cooperare gli attori».

«Il rischio cui stiamo andando velocemente incontro - sottolinea un manager del settore privato - è la rottura del common ground, della fiducia reciproca e nelle istituzioni. Che la polarizzazione del sistema politico accentua. Senza questa base comune non s'incide sul Leviatano pubblico-sindacale, non si risolve il problema fiscale e non si rafforza un'industria polverizzata che chiede sempre protezione».
Dal basso si chiede dunque al governo di agire in modo più radicale. «Berlusconi ha vinto - osserva un importante imprenditore - perché ha promesso cambiamenti importanti. Che però non si realizzano. Aggiungo anche che chiunque voglia vincere le elezioni ancora per molti anni deve promettere le stesse cose che ha promesso Berlusconi: meno tasse, meno burocrazia, più infrastrutture. Ma poi deve farlo davvero».

  CONTINUA ...»

10 novembre 2009
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